Quando nasciamo ci viene dato un nome. A essere precisi, ci viene dato ancora prima di nascere. A volte ci viene dato ancora prima di essere concepiti, o ancora prima che la parola “concepimento” abbia un per noi significato.
Ogni cosa ha un nome. Così ci hanno insegnato il mondo: coi nomi. E ogni nome ha un sottinteso: un “bicchiere” è una cosa che serve per bere. E quindi non stupisce lo sbalordimento di chi mi vede mangiarci la pasta, o peggio, appoggiarci un orologio. Il “bicchiere” è fatto per bere, no?
E noi, per cosa siamo fatti? Che cos’è un “Paolo”? Che cos’è un “Roberto”? Il nome ci rende unici, ci rende un altro oggetto, nuovo, mai esistito. Letteralmente, una nuova parola. Ma ogni definizione porta i propri limiti, prezzo per la comodità di usarla. Io sono un “Paolo” e non posso essere altro. Inizio con la mia testa e finisco con i miei piedi. La “mia” testa, e i “miei” piedi. Ma che cosa significa? Perché devo iniziare lì e finire lì, perché devo essere io e non un altro, ma soprattutto: perché devo essere qualcosa?
E se esistesse un mondo senza nomi? Come diceva Chuang Tzu: Dove posso trovare un uomo senza parole, così da poter parlare con lui?
Un altro universo si può immaginare. Dove tutto ha un nome, ha tutti i nomi, non ha nessun nome. Basta quello, immaginarlo. Andare oltre i limiti, oltre le definizioni. È il momento di pensare un nuovo mondo, un mondo dove ogni cosa, se vogliamo, può essere Roberto.